Un racconto di Eliza Bignotti, studentessa del quinto anno del nostro liceo, premiato al Concorso letterario nazionale “Parole sul Mare”, promosso dal Circolo Arci “Mario Merlo”. “Al termine della notte” offre un autentico sguardo sulla terapia ed è – come spiega Eliza – un omaggio a chi oggi vive questa situazione.
Al termine della notte
Al termine della notte Elena non si sente ancora giorno; ha occhi sporchi di buio e guance umide, residui di nebbia le sfumano il volto. Le poche ciglia superstiti hanno ancora il colore dell’ebano, così comtenera-la-notte.pdftenera-la-notte-1.pdfe il praticello incolto e un po’ sradicato che abita il tetto dei suoi pensieri; aveva capelli scuri un tempo, quelli sì che ricordavano la notte e odoravano di abisso e sogni perduti. Ti ci veniva voglia di fare un salto in quelle profondità per vedere se potevi accenderci qualche lucciola, per capire se potevi essere tu la sua lucciola.
Per Elena il buio è soltanto luce che svanisce, dice. Ma Elena fra quelle lenzuola latte non è più in grado di dire, ha voce soltanto per tradire i suoi desideri e rinunciare alla vita che merita. Al termine della notte il cielo di Elena è ancora nero, non sfuma, non vive gli stessi colori della mia alba, eppure vive. Sogna un primo sole in Cappadocia, in piedi su una mongolfiera, col cuore disteso e le mani tese verso un eterno che la consoli. Elena questi colori e questi infiniti li disperde; in quella stanza piccola che non la contiene lei s’imprime sulle pareti in gesso e dipinge sul bianco le sue ombre tenebra. È un gioco di chiaroscuro che ti fotte il suo, è arte astratta lei.
Elena ha paura della vita, per questo se n’è inventata una nuova, un mondo in cui nessuno possa calpestare la sua terra, ma nemmeno cogliere i suoi fiori. Perché, al termine della notte, Elena è ancora una pellicola in bianco e nero, una fotografia sfocata; non riesco a leggere fra le sue righe strette e i suoi quadri astratti. Elena ha famiglia, ma non ha casa; non sono i baci al caffè del padre a darle il buongiorno né le braccia forti della mamma, che vorrebbe urlare, ma rimane impassibile. Elena si alza e guarda fuori mentre io, da fuori, cerco di guardarla dentro. Indossa un pigiama grigio e ciabatte rosse; a passo stanco procede verso il bagno che condivide con la sua compagna di stanza. A farle compagnia c’è infatti un’altra nuvola, è piena, è di quelle che, quando si svuotano, si salvi chi può e chi non può resti, perché una nuvola che esonda è un’immagine da incorniciare nella bacheca dei ricordi. Quella nuvola è una donna ed è più grande di Elena, ma indossa un pannolone, proprio perché, come Elena, anche lei non è in grado di contenersi, di abitarsi.
La ragazza si guarda allo specchio e sorride con quel sorriso da sbornia tipico di chi si è fatto qualche sogno di troppo; non sono solo i farmaci a colmarle di sonno quelle occhiaie bambine, non è solo il lexotan a rallentare i suoi battiti. Un uomo col camice bianco irrompe nella sua intimità mattutina, la guarda, ma ciò che vuole fare davvero è scavarla e poi dilatarla per estrarre dal corpo esile la materia massiccia del suo pensiero.
Io, nella mia piccolezza, continuo a guardare da fuori e penso che l’ospedale psichiatrico non è per tutti: non è per me, ma nemmeno per quel medico e per Elena.
Ma Elena la pensa diversamente, ci è abituata, non ci fa più caso ai muri imbrattati di pianto e a quel cartello “Attenzione, pericolo di inciampo”; il pavimento è rivestito da una patina di lacrime e io le vedo e sento. Qui tutti sono mare e tutto è sterile.
Elena segue il medico in uno stanzino che ormai conosce alla perfezione. C’è un lungo tavolo a separare due sedie poste l’una di fronte all’altra, il tutto rigorosamente grigio per non stonare con l’abbigliamento dell’anima, per rimanere in tema con i propri dolori.
Il dottor Giovanni prende posto e invita Elena a fare altrettanto. La ragazza si siede, non sa nemmeno che ore siano, forse le nove o forse semplicemente l’ora migliore per guardarsi dentro.
Il dottore estrae dai suoi lunghi anni di studio un immenso repertorio di domande da porre alla paziente. La sua mente sembra ora una grande biblioteca in cui migliaia di libri ribelli cadono dagli scaffali, dando movimento alle loro storie fino a intrecciarne l’inchiostro, i personaggi, le nozioni. La verità è che Giovanni non sa tra quali pagine esplorare per dare il via a quella seduta; potrebbe iniziare con il tipico “Come stai?”, ma non ne vale la pena, conosce già la non risposta di Elena. Allora decide di fare a modo proprio:
“Com’è la tua notte Elena?”.
“Buia”.
“Buia fitta o buia con i lampioni accesi?”. “Buia”.
“Chiaro”.
“No, scuro”.
“E va bene, mi hai fregato di nuovo. Mi piacciono i tuoi giochi di parole. Ce ne sono, di parole intendo, nella tua notte?”.
“Sì”.
“Ah bene, quindi non sei sola”.
“Sì”.
“Non c’è nessuno quindi?”.
“No”.
“Allora di chi sono quelle parole? Riconosci la voce?”.
“No”.
“D’accordo, Elena, ma riesci a ricordare quanto dicono?”.
“Sì”.
“Sono tutt’orecchi o meglio tutto cuori”.
“Dicono cose brutte”.
“Ho cuori anche per quelle”.
“Ma io no”.
“Provaci”.
Sul viso di Elena spunta un sorriso, Giovanni sa che dirà poco o niente, ma non si arrende. Il suo lavoro gli ha insegnato a combattere anche senza un campo di battaglia e senza avversari. Senza parole. Lui comunque ne ha tante di parole, sono la sua arma e il suo segreto, quindi ricomincia:
“Dov’è la tua notte?”.
“In una strada”.
“Sei qui in città o in passeggiata fronte mare, quello di Sicilia magari o…” “Non lo so, ma…”.
“Ma?”.
“Non vorrei essere lì”.
“E perché non vorresti essere lì?”.
“Perché ho paura”.
“Di che cosa?”.
“Delle voci”.
“Cosa dicono?”.
Elena sorride, ma poi fra gli occhi le si fa strada un piccolo oceano.
“Che devo morire”.
“E tu sei d’accordo?”.
“Io no, ma lei sì”.
“Ah, ma allora lo sai a chi appartiene questa voce! E’ una donna giusto?”.
“Sì”.
“Bene, Elena, grazie. Sono contento che siamo riusciti a parlare un po’. Ti va una pausa?”.
Elena esce dalla stanza e ripensa alle parole del dottor Giovanni, alla sua notte, al buio che ancora si sente addosso, a quel treno che non ha preso per Berlino e a quel volo perso per le Fiji. Non sa neanche dove siano, le Fiji, ma il nome le piace, perché se lo scrivi, vedi che ci sono tre puntini sulle ultime tre lettere della parola. Due sulle “i” e uno sulla “j”. Tre puntini che indicano un oltre, un qualcosa in più. Ecco, Elena è così, come i tre puntini delle Fiji.
Vorrei andare a trovarla, davvero, ma quando entro lì dentro mi sembra di varcare le non porte dell’erba alta di Stephen King; non temo, una volta dentro, di non essere in grado di uscire, ma di voler fuggire.
Penso a quella volta che il dottor Giovanni mi ha guardata negli occhi mentre Elena dormiva in mezzo a noi. Gli avevo chiesto: “Come sta?” e lui mi aveva risposto: “Un po’ alla volta” e, con tutto il silenzio di cui quando vuole è capace, mi aveva ringraziata. Ha gli occhi da padre Giovanni, gli voglio bene.
Elena ha una crisi, le si chiudono le palpebre, il cervello comanda ogni suo movimento. Sembra un attacco epilettico, ma Elena non ha l’epilessia. Tutti gli esami effettuati in questi anni rivelano un unico esito: negativo. Non rischia di soffocare, i dottori lo sanno, io lo so, ma nessuno di noi sa davvero come intervenire. “Bisogna aspettare che passi”, dice sempre la mamma e io mi chiedo come faccia a non annegare mai.
Spero almeno che Elena sogni mentre le si inarca la schiena e il suo corpo sobbalza come una barchetta in balia di cavalloni affamati; non esce spuma dalle labbra serrate, perché anche con le onde dentro, anche se percossa da uno tsunami, Elena rimane a bocca chiusa. A bocca asciutta. Giovanni ora può soltanto starle accanto facendo attenzione che non sbatta la testa; potrebbe legarla al letto, ma il dottore è uno che le persone preferisce legarsele al cuore e allora la tiene forte, con quelle mani grandi, che ogni giorno assorbono più di quanto un uomo possa sopportare. Vorrebbe farlo suo tutto quel buio che sente entrargli dentro poco a poco, ma Giovanni deve rimanere acceso continuando ad essere faro per i piccoli e grandi naufraghi notturni. Ha un piano lui, deve soltanto aspettare il momento giusto. Spero arrivi presto… Spero arrivi presto il momento in cui al termine della notte Elena smetterà di essere notte.
Ti aspetto qui fuori, al giorno. Ti aspetto a vivere, Elena.
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