di Carlo Franco
Può il latino sopravvivere nell’era della digitalizzazione? Può il latino sopravvivere al XXI secolo? Quale futuro per la lingua “morta” per eccellenza?
Ho incontrato il latino da studente, alla scuola media, nell’anno 1971/72, e ancora ho a che fare con questa lingua. Cinquant’anni sono però un tempo breve, a confronto con la presenza del latino in Europa, la cui fase recente è raccontata dal bel libro di una studiosa francese (F. Waquet, Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), Feltrinelli 2004). Lo spazio del latino, un tempo grande, si è rimpicciolito di molto, e con più rapidità nel corso del Ventesimo secolo. Non penso soltanto allo studio, molto ridimensionato nel corso del secondo dopoguerra, ma proprio alla produzione di testi nuovi, scritti e orali, in quella lingua. Le occasioni d’uso sono oggi rarissime. Poco latino, non sempre impeccabile, è usato nelle prefazioni alle edizioni critiche del classici. Poche istituzioni, in una sorta di resistenza, promuovono il ‘latino vivo’, con esiti non sempre felici: per parlare, si usa infatti un pidgin-latino, che dimentica la storia della lingua. Simile problema nei tentativi di volgere in latino libri d’oggi (come Harrius Potter et philosophi lapis: non lo sappiano i Mani di Cicerone…). Taluni istituti propongono un bizzarro insegnamento del latino ‘parlato’: a parte altre considerazioni, quasi insuperabile il problema di trovare dei madrelingua come ‘lettori’. In realtà, non basta l’uso di un qualche latino per festeggiare la vita di questa lingua: essa si continua certo nelle lingue viventi, ma si regge sui grandi testi prodotti finché il latino è stata lingua colta europea (compresi, quindi, i Carmina di Pascoli).
L’estrema resistenza della Chiesa
Certo, non sempre la modernità respinge il latino: vengono redatte in latino voci per Wikipedia (anzi: Vicipædia!) ed esistono, si dice, pure tweet latini: ma si tratta di produzioni artificiali, mentre l’uso pubblico di quella lingua è obsoleto. Naturalmente, resta la lingua ufficiale della Chiesa cattolica: in latino sono redatti i documenti dottrinali e celebrate alcune liturgie solenni. In latino, con formula fissa, viene annunciata l’elezione del nuovo vescovo di Roma (Annuntio vobis gaudium magnum! Habemus papam!). Con un discorso in latino proclamò Giovanni XXIII l’apertura del Concilio Vaticano, nel 1962 (Venerabiles Fratres, Gaudet Mater Ecclesia...); ancora in latino ne proclamò la chiusura Paolo VI, nel 1965 (Venerabiles Fratres, Hodie Concilium Oecumenicum Vaticanum secundum concludimus…). Ma è passato tanto tempo. E proprio il Concilio segnò l’abbandono della liturgia esclusivamente celebrata in latino.
L’ultimo discorso pubblico (e scorretto!) in latino
L’occasione più recente, che io ricordi, in cui si usò latino per un discorso è però di pochi anni fa. In latino Benedetto XVI comunicò la propria rinuncia al papato (11 febbraio 2013): in molti si videro le riprese. Iniziò dunque il papa a parlare davanti ai cardinali riuniti, con voce flebile e a tratti mal udibile, nel suo latino dall’accento tedesco: Fratres carissimi, non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vita communicem. Non saprei dire se tutti i presenti compresero quelle parole (qualcuno era stato avvisato), ma quel discorso in latino ha buone probabilità di restare l’ultimo di sempre (Il testo si può leggere in rete). Nel discorso assai breve, c’erano, stranamente, alcuni errori di latino, poi corretti nel testo agli atti ma subito rilevati a stampa dal filologo Luciano Canfora (Due millenni di latinità in poche righe, ristampato nel volume collettivo La scelta di Benedetto, Solferino 2013). Vi si leggono espressioni di Cicerone, citazioni dei Padri della Chiesa, e anche dei modernismi, ossia termini estranei al lessico latino antico: una necessità fronteggiata un tempo con speciali dizionari. Un grammar-nazi potrebbe osservare, quanto agli errori, che nelle righe iniziali sarebbe stato preferibile dire vos convocavi […] ut vobis decisionem communic[ar]em. Ma nelle ore che precedettero la storica dichiarazione, chi era incaricato di tradurre in latino il testo non ebbe certo agio di concentrarsi sulla grammatica. Tuttavia, come notò Canfora, se anche «il latino dei moderni riflette la ricchezza e la novità della lingua dei moderni», resta che «alcuni pilastri non possono, neanche in omaggio al “nuovo che avanza”, essere infranti». Sulla base di quegli errori linguistici è sorta pure una teoria complottista: gli svarioni proverebbero che le dimissioni furono forzate, che la rinuncia è invalida, e che Bergoglio è un papa non legittimo. Nientemeno (qui un saggio di questi deliri).
La morte di Benedetto XVI, il 31 dicembre 2022, mi ha riportato alla memoria quella storica declaratio (così si chiamava, con ineccepibile termine ciceroniano).
Verba nova per il 2023
Le cerimonie funebri di Benedetto XVI hanno comportato poi la redazione di un ulteriore testo, dunque nel latino del 2023. Alle spoglie mortali del papa è stato unito un ‘Rogito’ che ricapitola, in grande sintesi, la vita del defunto.
Scorrendo il testo si rileva qualche tratto notevole. Per indicare l’ora della morte, si usa il modernismo momentum per dire ‘minuto‘ (hora nona, triginta quattuor momentis elapsis), mentre della madre di Ratzinger si dice che in gioventù lavorava come coqua (cuoca, termine raro, che si legge in Plauto) in un deversorium (normale per indicare una locanda). Più interessante il passaggio relativo agli anni della Seconda guerra mondiale: taciuto l’arruolamento del giovanissimo Georg come ausiliario nella Luftwaffe e nella Wehrmacht (1943-1945), si sottolinea invece come la famiglia lo avesse preparato «alla dura esperienza dei problemi connessi al regime nazista». Il modernismo nazistae (ad durum aerumnarum nazistarum regiminis tirocinium) è documentato. Ricorre dopo il 1945 con una certa frequenza in testi latini, non solo di Chiesa. Anche altri aspetti della contemporaneità implicano parole, per così dire, post-classiche: termini moderni, sebbene due siano grecismi, presentano l’azione del papa di fronte all’avanzata del relativismo morale e di una condotta di vita che non considera la sfera religiosa (coram relativismo et atheismo practico magis magisque irrepentibus).
Latino in bilico tra esito ed exitus
Questo lo stato della produzione in latino oggi, a Roma, dove esiste una Pontificia Accademia di Latinità, presieduta da Ivano Dionigi (latinista, già all’università di Bologna). Quale sarà, più in generale, il destino del latino nel XXI secolo è arduo dire. Lo studio della lingua declina, insieme con la pratica, ingiustamente ridimensionata, della traduzione (il massimo livello di conoscenza linguistica, il migliore accesso ai testi, perché unisce comprensione e interpretazione). Nella nostra scuola si continuerà, finché possibile, a cercare di trasmettere il senso della cultura e della lingua latina a chi è nato in questo secolo, e in esso vivrà. Al pessimismo possono indurre, tra l’altro, perfino certi umori della rete, come un post comparso ai primi di gennaio 2023 (da lercio.it): «Aperto il testamento di Ratzinger, ma è in latino del V secolo d.C. e nessuno riesce a interpretarlo». Ne va di mezzo il defunto, ma anche il latino, paragonato ormai all’etrusco, ossia a una lingua ignota e incomprensibile. Difficile che ne derivi una tipica polemica sulla scuola italiana, dove, come si ripete a vanvera, “non si insegnano bene le lingue”, antiche o moderne. Più probabile, si direbbe, l’ennesima crociata per l’abolizione del latino. E però, mio eventuale lettore o lettrice, finem lauda.
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