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RECENSIONE DI DOGMAN

di Andrea Viggiano

Roma, borgata romana della Magliana, 1988. Il “tosacani” Pietro De Negri assassina lo spostato ex-pugile Giancarlo Ricci. È a questo fatto di cronaca che si ispira Dogman. De Negri viene qui interpretato da Marcello Fonte, attore dalla struttura fisica e vocale tanto rara quanto l’interpretazione schizofrenica del personaggio, che gli è infatti valsa il premio a Cannes 71.
Uno stordente cine-pugno colpisce lo spettatore; un cane abbaia rabbiosamente mentre il canaro Marcello lo sta lavando. Marcello ha un’anima angelica, l’unica sua colpa è esser nato in una periferia gomorresca, malavitosa, dannante. Lo spaccio di droga e la realizzazione di piccoli furti costituiscono la sistematica maniera per arrotondare lo stipendio.
È il gigantesco Simone, amico di Marcello, l’homme fatal. A causa dei continui disagi che il suo comportamento provoca, viene preso di mira da commercianti e bottegai della zona: un piccolo clan di cui anche il protagonista fa parte. Allo scopo di liberarsi della scomoda presenza di Simone, la camarilla della Magliana progetta di ucciderlo. Pianificando una rapina ad una gioielleria confinante col negozio del canaro, Simone costringe l’amico a tradire il gruppo compromettendolo nel furto.
Le conseguenze per Marcello saranno la condanna ad una pena detentiva, la fine della rete delle solidarietà locali e della rispettabilità sociale. Una strana dignità morale, la paura per l’incolumità propria e della sua famiglia, mista all’ingenua brama di una ricchezza irraggiungibile, inducono Marcello a coprire Simone.
La reclusione opera, però, un mutamento nel carattere di Marcello. Uscito dal carcere rivendica di fronte all’ex-pugile la parte di refurtiva che gli spetta, senza successo. Il sentimento di vendetta si impossessa di Marcello che attira il rivale nel proprio negozio e, in un turbinio brutalità, lo uccide.
Il delirio di onnipotenza costringe il protagonista ad attribuire una dimensione comunitaria al rito della violenza che si è appena compiuto: trasporta sulla schiena il cadavere di Simone da esibire al gruppo verso cui aspira di reintegrarsi.
La ricerca si conclude col fallimento. Come in Blow-Up il primo piano si trasforma in campo lungo rivelando la desolazione paludosa, quasi tarkovskiana, che inghiottisce il protagonista.
Garrone disegna il profilo di uno stato di natura hobbesiano in cui vige la regola dell’homo homini lupus.
La presenza dello stato e la fiducia dei cittadini nelle sue istituzioni sono del tutto assenti. La vocazione individualistica dell’uomo si concretizza nella scena dell’omicidio. Il negozio del protagonista si trasforma in un’arena in cui i cani diventano spettatori inorriditi di fronte allo scatenarsi della violenza e afflitti dalla parabola del canaro trasformato in bestia, o meglio, in dog-man. La cerimonia della vendetta passa attraverso due stadi differenti. Quest’ultima è qui intesa come sorta di compensazione dato che non può esaurirsi con un accordo di tipo economico. Così i danni subiti da Marcello, la carcerazione e l’isolamento, vengono restituiti rispettivamente coll’ingabbiamento di Simone (nel negozio del protagonista) e con la volontà di ostentazione della salma intesa come redenzione sociale.
Infilatosi nel circolo vizioso dell’abiezione, Marcello sembra sottrarsene solamente nella finale, grottesca ma catartica, via crucis: in un baleno di lucidità, Simone rivela un sentimento di rimorso, d’attonimento, di solitudine.
Se dopo L’imbalsamatore (a cui il film sembra ispirarsi soprattutto ad un livello fotografico), Gomorra, Reality e Il racconto dei racconti ci fossero stati ancora dubbi, qui vengono dissipati. Matteo Garrone si può definitivamente considerare la punta di diamante del nostro cinema che una nuova generazione di cineasti sta risvegliando.
Il regista, mettendo in scena un mondo decaduto politicamente ed eticamente, non vuole solamente cantare l’ira e la psicologia dell’emarginazione ma anche ammonire alla direzione che sta intraprendendo l’Italia odierna, giocando con una narrazione in cui la forza della visceralità visiva prevale su quella del verbo. Perché Dogman è un’opera tetra ma cinematograficamente cristallina.